Ci sono dei luoghi che ti restano dentro, anche se non ci sei davvero mai stata.
Eppure sono lì, bastano due righe e immediatamente tu li riconosci e sapresti dirne gli aromi, i colori e i suoni.
Riesci a sentire che rumore farebbero i tuoi passi, e l’hanno anche fatto, su quel pezzo di sentiero e in quella calle e sai benissimo che se ora, in ottobre, alzassi gli occhi al cielo, il cielo avrebbe quel colore lì, proprio quel grigio azzurro con quelle nuvole.
Sono i posti che hai conosciuto nei tuoi viaggi immaginari, quelli che ti basta aprire un libro e stai già camminando veloce su un marciapiede in mezzo al caos di una metropoli o, come nel mio caso, voli in bicicletta sul sentiero del villaggio sotto una pioggerella battente confidando in una tazza di tè bollente.
Io ho cinque luoghi così: sono cinque posti in cui non sono mai stata, spesso frutto della fantasia, del sincretismo degli autori o delle condizioni di un passato difficilmente riproducibile.
Ma per me sono luoghi veri, concreti, con una loro densità e un loro volume, con una luce specifica e tutta loro.
Insomma sono i miei luoghi del cuore fantastici.
“Macondo in Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcia Marquez
Macondo è quel piccolo villaggio in cui tutta la storia della famiglia Buendìa e conoscenti vari prende inizio e in cui tutto si disfà.
Nelle prime pagine Gabo, Gabriel Garcia Marquez, lo descrive così: “Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruite sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche” e ancora “…quel villaggio perduto nel sopore della palude”
Macondo che poi “naufragava in una prosperità da miracolo”, Macondo in cui con l’arrivo del treno arrivano anche “…creature da fiera, con pantaloni da cavallerizzi e …caschi da esploratore, occhiali cerchiati di acciaio, occhi di topazio e pelle di aragosta…” e “puttane inverosimili, femmine babiloniche”. Mi sono sempre chiesta cosa significasse per Gabriel Garcia Marquez definire una signora, una “femmina babilonica”, come tale affermazione rientrasse nel suo mondo da sud americano.
Macondo che però è destinata a divenire un “pauroso vertice di polvere e materie centifrugato dalla collera dell’uragano biblico…perché le stirpi dannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra”.
Pura magia voodoo, non credete?
Impossibile smettere di leggere, impossibile dimenticare. Per sempre destinati a cercare in ogni altro romanzo lo stesso tipo di incantesimo, di malia.
St. Mary Meadow nei romanzi gialli di Agatha Christie
Non ho letto tutti i gialli di Dame Agatha Christie e ammetto che trovo il permalosissimo investigatore belga Hercule Poirot molto più spassoso di Miss Jane Marple, ma… Ebbene c’è un “ma” che per me vale moltissimo: St. Mary Mead, il villaggio in cui Miss Marple vive e agisce, è incantevole.
Ha il gusto del tè Earl Grey con una nuvola di latte e degli scones con la marmellata di agrumi.
Ha il colore grigio e blu pervinca dei cieli d’Inghilterra e il rumore delle ruote della bicicletta che vanno veloci su sentieri in terra battuta umida per la pioggia onnipresente.
Ha gli sguardi placidi di vecchie signore con cappelli improponibili (Sua Maestà Queen Elizabeth II docet) e un impermeabile Barbour verde o marrone di almeno quarant’anni fa che però, una volta a casa, affilano gli stessi sguardi dietro a tendine in candido cotone delle Indie (ah, il vecchio Impero)
St. Mary Meadow è a 25 miglia da Londra e la stazione più vicina è a Paddington.
La via principale si chiama High Street e su questa affacciano macellaio, panettiere, lattaio e parrucchiera.
Miss Marple no, lei non sta in High Street.
Miss Marple vive in un cottage in un piccolo lane laterale.
Perché essere British è anche fare dell’understatement, del non apparire il proprio marchio. Almeno nel mio St Mary Mead.
La Sicilia nei romanzi di Simonetta Agnello Hornby
Non saprei dire esattamente quale delle Sicilie che via via appaiono nei romanzi di Simonetta Agnello Hornby mi appartenga di più: quella di “La zia Marchesa” o di “Boccamurata” o ancora di “Via XX settembre”.
E’ un mix di sensazioni, di aromi, di stimoli visivi e di impulsi tattili (un tessuto, la pagina di un diario, eccetera) che escono ogni volta dalle sue pagine, come dei “pop up”: tu apri il libro, inizi a leggere e davanti a te c’è una terra incredibile, colorata, con aromi, suoni e colori che non sono tuoi, ma che lo diventano per elezione.
Io sono siciliana nell’anima.
La Sicilia è per me, di volta in volta, la sterminata piana di mandorli de “La Mennulara” con il suo amore violento e dolcissimo e quel ménage a tre che non ha nulla di peccaminoso, ma è anche il mare delle traversate verso continente de “La Monaca” come pure i palazzi della Sicilia più nobile de “La Zia Marchesa” in cui l’ombra sa di lavanda e di vapore del ferro da stiro.
Io, nordica bresciana, in questa amalgama calda e palpitante, mi ci perdo.
Il Barsetshire de “Le cronache del Barset” di Anthony Trollope
Non è davvero il primo esempio di scrittore o scrittrice che crea una geografia parallela a quella reale in cui far muovere i suoi personaggi.
L’hanno già fatto Agatha Christie con la succitata St Mary Meadow nella contea del Downshire o, in misura grandiosa, J.R.R Tolkien con la sua Arda di cui la “Terra di mezzo” in cui si svolgono le vicende del “Signore degli anelli” non è che una zona.
Però, il Barset o Barsetshire di Anthony Trollope è un luogo eccezionale sia per le caratteristiche geofisiche che per i suoi abitanti.
C’è un East Barsetshire e un West Barsetshire e al centro la “capitale” Barchester con le sue chiese e la sua cattedrale.
Ci sono grandi proprietà in campagna dove vive la nobiltà della “terra”, conservatrice, chiusa e alquanto bizzarra per quanto convinta del contrario: lady zitelle che si ergono a amazzoni per difendere i fratelli da attacchi alle proprietà perpetrati da signorine più o meno giovani, più o meno “cittadine” che però proprio non capiscono come è la vità lì, nel Barchester.
Ci sono schiere di giovani, vedove inconsolabili o virtuose figlie, poi pronte a farsi consolare e farsi sposare da diaconi, arcidiaconi e tutta una schiera clericale che fa di certo concorrenza all’organigramma del nostro Vaticano. Ci sono soprattutto i “nuovi ricchi”, i borghesi che arrivano e vogliono cambiare tutto, dall’assegnazione dei privilegi all’organizzazione del servizio religioso: inaudibile.
E c’è quella sottile ironia, quel sottile humour inglese, quel “detto non detto” che mi strappa un sorriso e mi fa pensare che “ferisce di più la lingua che…”
Il Barsetshire sa di cipria, di lavanda e di rosa tea e anche un po’ di sherry, ha i colori dell’edera che è verde smeraldo in primavera e arancio porpora in autunno e il sapore dell’apple pie con una tazza di tè, English Breakfast o Assam, nero e intenso.
La Venezia di “Q” di Luther Blisset e di Altai di Wu Ming
Se non conoscete chi si cela dietro a Luther Blisset e Wu Ming, cliccate sui nomi e avrete qualche informazione in più.
Ma è Venezia, quella Venezia che mi affascina.
E’ la Venezia al massimo del suo splendore e sull’orlo dell’inizio della decadenza.
I Veneziani andavano ovunque e a Venezia arrivava gente da ogni parte dei domini della Serenissima e anche oltre: Venezia si estendeva da Bergamo al Friuli, raggiungeva Ravenna e comprendeva l’Istria, la Dalmazia, Cipro, Creta, il Peloponneso e gran parte delle isole greche.
Era una Venezia spumeggiante a livello commerciale e culturale: qui affluivano pittori come Giorgione, Tiziano, Tintoretto e Giovanni Bellini.
Qui si stampavano libri che nel resto d’Italia erano all’indice e sempre qui quando si parlava di “vita contemplativa” molto spesso si faceva riferimento a studio e collezionismo, da cui incredibili collezioni d’arte.
Ma è soprattutto qui che arrivavano i tessuti più pregiati, le essenze profumate sconosciute che i mastri profumieri (ne ho già parlato qui) poi facevano conoscere ai nobili di tutto il continente e qui ci si muoveva scivolando su barche e gondole, coprendosi di lunghi mantelli e ci si trovava nelle case di amici e conoscenti per ammirare le stranezze che arrivavano da ogni parte.
Dopo tutto, nacque a Venezia la prima donna laureata nel mondo, Elena Lucrezia Cornaro che senza la caparbietà del padre e di se stessa non avrebbe aperto le porte del riconoscimento ufficiale del titolo di dottore a una donna.
Venezia era, ma è anche oggi per me, uno scrigno di delizie per il cuore e per la mente.
E voi avete dei luoghi del cuore immaginari?
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